PARLA IL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA: «DIVIETI ANTI COVID LEGITTIMI PER DECRETO LEGGE, NON COI DPCM»

Il Presidente Giovanni -Maria Flick

LA CARTA DIMENTICATA

«NON C’È UNA GERARCHIA DI PRINCIPI, IL LAVORO NON PREVALE SULLA SALUTE: VA TROVATO L’EQUILIBRIO, RICORDANO LE SENTENZE COSTITUZIONALI. È VERO CHE LA LIBERTÀ PERSONALE PUÒ ESSERE LIMITATA SOLO SE C’È UNA LEGGE E IN PIÙ IL PROVVEDIMENTO DI UN GIUDICE. MA ANCHE PER LIMITARE LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE SERVE UNA LEGGE. DUNQUE UN DECRETO LEGGE, SE LA MISURA È URGENTE. NON DPCM SOTTRATTI AL CONTROLLO DELLE CAMERE»

Non serba acredine verso l’onorevole Borghi, «non foss’altro perché è anche lui un collega e si è per giunta laureato alla Cattolica come il sottoscritto». Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick viene importunato dal Dubbio sulla boutade iperbolica del deputato leghista, fiduciario di Salvini per l’economia: «Il diritto al lavoro», ha detto l’altro ieri Borghi, «dovrebbe essere prioritario persino rispetto al diritto alla salute: viene anche prima, nella sequenza di articoli della Costituzione».


Paradosso o cantonata non ha importanza: da lei, presidente Flick, ci si poteva aspettare una bella bacchettata sulle dita.

«E invece l’onorevole autore di quella frase ha il dovere di conoscere la sua materia, che mi pare sia l’economia, ma non l’obbligo di competenza sulle sentenze della Corte costituzionale. Gli economisti non sono tenuti a conoscere le pronunce con cui la Consulta scioglie il presunto conflitto fra i principi nell’equilibrio tra i diversi interessi, nel necessario bilanciamento che non consente la “tirannia di un diritto sull’altro”».

Però Flick, cortesia a parte, va oltre. Approfitta del caso per evocare una splendida verità della nostra Carta: «La gerarchia, se c’è, non si riflette nell’ordine degli articoli ma nelle diverse garanzie poste a presidio dei diversi principi».

Cioè, ci sono “beni” che la Costituzione tutela di più?

Come accennato, la Consulta, con due pronunce sull’Ilva, ha ribadito che non può esserci alcuna tirannide esercitata da qualche diritto sugli altri. È vero che il diritto alla salute è il solo al quale i costituenti abbiano accostato l’aggettivo “fondamentale”. Allo stesso modo è vero che esiste un’altra distinzione, che riguarda i diversi limiti previsti per la libertà personale da un lato e per libertà come quella di circolazione dell’altro. Ebbene, la limitazione della libertà personale è presidiata da una duplice garanzia: la legge e il giudice verifica se vi siano le condizioni per applicarla in concreto.

Quindi la libertà di circolazione, per esempio, può essere sottoposta a compressioni più disinvolte, come avviene a causa del covid?

Un momento: non ci sarà la garanzia del giudice, ma quella della legge sì. Mentre nella contingenza attuale siamo di fronte a limitazioni sistematicamente imposte, e in un primo momento sanzionate, non per legge ma con provvedimenti regolatòri del governo, a volte difficilmente comprensibili. E invece la possibilità di comprendere le norme è essenziale per la democrazia, oltre che per giustificare un’eventuale sanzione.

I Dpcm?

I Dpcm appunto. Siamo ai confini della Costituzione. Si può limitare la libertà, anche in nome del fondamentale diritto alla salute, ma a condizione che le limitazioni avvengano attraverso un provvedimento avente forza di legge.

Un decreto legge?

Certo. Un provvedimento che, seppur assunto in via emergenziale dal governo, deve essere sottoposto al controllo del Parlamento, e non in modo soltanto formale.

Presidente Flick, non è la prima volta che contesta la plausibilità dei Dpcm come strumento di limitazione delle libertà. Però lei dice che il discorso si incrocia eccome con la cosiddetta gerarchia dei principi costituzionali. Ci spiega perché?

Lei usa la parola gerarchia. Io no. È bene ricordare, soprattutto da parte di un tecnico della materia, cosa c’è scritto in due importanti pronunce della

Corte costituzionale. Entrambe riguardanti l’Ilva di Taranto. La prima è la sentenza numero 85 del 2013. Contiene innanzitutto un elemento chiarificatore sul diritto al lavoro: si configura il lavoro con riferimento all’opportunità che lo Stato deve adoperarsi a favorire con tutti gli sforzi possibili. Non nel senso che si debba provvedere a procurare a ciascun cittadino un certo lavoro anziché un altro, ma in termini di massimo impegno a creare le condizioni che determinano occasioni di lavoro per tutti. Insieme con una pronuncia più recente, del 2018, la sentenza del 2013 ricorda però che nessun diritto costituzionalmente tutelato può essere tirannico rispetto agli altri. Va sempre conseguito il miglior bilanciamento possibile fra i diversi beni giuridici richiamati nella Carta, che possono anche essere diversi tra loro. Non in conflitto: nel senso che il potere legislativo, il potere esecutivo, il giudice, devono trovare sempre l’equilibrio in grado di risolvere il potenziale conflitto in un ragionevole contemperamento degli interessi. Ciascuno per la parte di sua competenza.

Inutile dire che col bilanciamento non c’entra nulla l’ordine sequenziale degli articoli della Carta.

Ha ragione, non foss’altro perché il diritto al lavoro, inteso nel senso ricordato dalle sentenze costituzionali, ricorre non solo nell’articolo 4, come diritto e dovere, ma anche più avanti, negli articoli 35 e seguenti. All’articolo 36 per esempio, si precisa che al lavoratore spetta sempre una retribuzione in grado di assicura- re un’esistenza dignitosa a lui e alla sua famiglia. Ma ripeto, immagino che con la frase sull’ordine degli articoli si volesse dare enfasi a un certo discorso.

Borghi voleva sostenere che le limitazioni imposte per ragioni sanitarie non possono prevaricare il diritto al lavoro.

La salute, tutelata all’articolo 32, è come detto il solo bene giuridico che la Costituzione qualifichi al punto da definirlo “fondamentale”. Diritto alla salute che si concretizza anche nel divieto di sottoporre una persona a trattamenti sanitari contro la sua volontà. Ma il diritto alla salute va inteso anche nel senso che il bene di ciascuno deve specchiarsi nel diritto alla salute di ciascun altro. Il che può anche tradursi in limitazioni della libertà. Come la vaccinazione o l’obbligo di indossare la mascherina, in quanto espressioni del dovere inderogabile di solidarietà sociale.

Qui ci soccorre la distinzione di cui pure ho fatto cenno all’inizio. C’è da una parte la libertà personale, la prima libertà, a cui la Costituzione assegna una doppia garanzia: può essere limitata solo sulla base di norme stabilite per legge e, in più, solo quando vi sia il provvedimento di un giudice. Il secondo presupposto è indispensabile: il giudice deve verificare che nel caso specifico ricorrano effettivamente le condizioni previste da una legge per limitare la libertà personale. Riguardo le limitazioni di altre libertà, come quella di circolazione, sancita all’articolo 16, non c’è bisogno che un giudice si pronunci ma c’è comunque bisogno di una legge. E tale legge, afferma proprio l’articolo 16, può introdurre limiti solo per ragioni di sicurezza o, guarda un po’, di sanità.

Vuol dire che le restrizioni anti covid vanno introdotte solo con atti aventi forza di legge oppure sono fuori dalla Costituzione?

Evidentemente non si può andare contro la Costituzione. Se da essa discende una riduzione di libertà di circolazione per cause di sanità o sicurezza possibile solo se introdotta per legge, c’è poco da fare: vista l’urgenza di casi come la drammatica pandemia in cui siamo, si deve ricorrere allo

strumento previsto dalla Costituzione per legiferare in condizioni di necessità e urgenza, cioè il decreto legge. Semplice.

Le obietteranno: se dobbiamo modificare ogni settimana quelle restrizioni, il ricorso a decreti legge seriali paralizzerebbe il Parlamento e le restrizioni stesse.

No, mi spiace. Se non si distorce lo strumento normativo, se in fase di conversione non si introducono milioni di postille e di modifiche, sarà un impegno sì gravoso, ma tollerabile. Facciamolo pure lavorare, il Parlamento. La democrazia lo prevede. Il punto casomai è un altro.

Quale altro?

La zona grigia fra libertà personale e libertà di circolazione. Attenti. Non si può arrivare a proibire che all’interno di un domicilio si siedano a tavola più di 6 commensali. Né si può pretendere che quei commensali siano tutti uniti da un legame stretto, qualunque cosa questo significhi. Sarebbe una limitazione della libertà personale. Servirebbe dunque non solo una legge ma anche un giudice che emetta un provvedimento. Vede, limitare la libertà personale significa sottoporre un individuo al pieno potere dell’altro. Entra in gioco un’infrazione della dignità della singola persona. Ecco perché la Carta richiede la doppia garanzia sopra ricordata. Si tratta di realizzare un atto coercitivo. La libertà di movimento invece non chiama in causa la dignità, perché la sua limitazione può dare luogo a un obbligo, non a una coercizione nei confronti del singolo individuo. Se chiudo una strada o un’area del territorio nazionale, impongo una restrizione a una molteplicità di soggetti. La dignità personale dunque non è chiamata in causa. Ma allo stesso modo non si può adottare un atto coercitivo per far osservare il divieto di circolazione. Non c’è un giudice, dietro, ad autorizzarlo. Però mi lasci evocare un’ultima amnesia.

Ce ne sono davvero troppe.

Riguarda i detenuti. In un contesto in cui imponiamo restrizioni per impedire il contatto fra le persone, costringiamo in una condizione opposta la sola categoria dei reclusi. Costretti all’assembramento, se così si può dire. Siamo ai limiti del costituzionalmente tollerabile, come ricordo in un libro da poco alle stampe. E siamo stati finora fortunati. Ci è andata bene. Di contagi nelle carceri ce ne sono stati pochi. Ma non sfidiamo oltre il destino, per piacere.

Fonte “Il Dubbio”, articolo di Errico Novi.