CORONAVIRUS E RISARCIMENTO

Professionisti liberati dall’addebito di responsabilità

L’emergenza nazionale, così come già annunciata nel primo Dpcm del 31 gennaio 2020, ha colto di sopresa medici ed operatori sanitari che – costretti a fronteggiare un’epidemia dai risvolti per lo più ancora ignoti alla comunità scientifica – non potevano non accollarsi il rischio di tentare vie inesplorate. A pesare, lo stress quotidiano, il deficit di macchinari d’avanguardia, la penuria di personale specializzato e la carenza di posti letto nei reparti di terapia intensiva. Un contesto, foriero di errori diagnostici o terapeutici, in seno al quale la pandemia si eleva a causa di forza maggiore per eccellenza cui riferirsi, in combinato con lo stato di necessità, per “spezzare” il nesso causale tra la condotta medica e il danno. Scudo che potrà liberare il professionista dall’addebito di responsabilità sempre se si accerti che abbia osservato le best practise, i protocolli comuni per la gestione delle malattie infettive e le ordinarie regole di prudenza, perizia e diligenza. Parametro normativo? L’articolo 2236 del Codice civile che giustifica chi fallisca la performance per particolari difficoltà della prestazione. E l’esplosione di una crisi pandemica costellata da una miriade d’interrogativi (origine del virus, carica infettiva, variabili soggettive) lo è a tutti gli effetti.

IL DANNO ESTETICO - Il mancato miglioramento fa scattare la colpa

È danno estetico, rilevante per il risarcimento usualmente incluso nell’ambito del danno biologico, quella tipologia di invalidità permanente passibile del riconoscimento ulteriore del danno patrimoniale qualora il pregiudizio incida su attività future, precludendole o rendendole di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato e ad ogni altra utile circostanza (Tribunale di Vicenza 481/18). E se la ragione che induce a sottoporsi a interventi è quasi sempre il desiderio di correggere l’aspetto, il miglioramento esteriore sarà parte causale del contratto medico per cui quando si accerti che per l’errore sanitario – da imprudenza, imperizia o mancata diligenza – sia fallito il risultato sperato, scatterà la responsabilità del medico nonostante la sua obbligazione sia, è noto, di mezzi e non di risultato (Tribunale di Bari, 4 settembre 2018). E l’esecuzione di una diversa operazione, a prescindere dal fatto che sia stata usata la tecnica con modalità più o meno corrette, implica di per sé non soltanto un inadempimento contrattuale ma anche una lesione dell’integrità psicofisica del paziente (ricondotta all’alveo della responsabilità sanitaria extracontrattuale) per essersi questi sottoposto ad inutile rischio chirurgico (Corte di cassazione 29827/19).

IL CONSENSO E L'OBBLIGO DI DARE INFORMAZIONI COMPLETE AL PAZIENTE

Il medico che non informi il paziente dei possibili pregiudizi dell’intervento e agisca senza acquisire un consenso legittimamente prestato può causare due danni (Cassazione 9807/18). Intanto, il danno alla salute sussistente quando sia ragionevole ritenere che il malato, se ben edotto, non si sarebbe sottoposto all’operazione schivandone le conseguenze invalidanti. Ma se riporti lesioni permanenti come prevedibile esito di azioni “salva vita” non avrà alcun ristoro ove non provi – con qualsiasi mezzo (Cassazione 17806/20) – che, messo al corrente degli sbocchi, l’avrebbe rifiutate (Cassazione 31234/18). Ravvisabile, poi, il danno al diritto di autodeterminarsi se il deficit informativo gli abbia arrecato un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale di apprezzabile gravità (Cassazione 17322/20). Trattandosi di danni distinti, il rigetto della domanda tesa ad accertare la colpa medica non preclude l’iter per violazione dell’obbligo del consenso informato (Cassazione 8756/19) inclusivo dei rischi minimi (Cassazione 30852/18) pur slegati – come nella chirugia estetica – da una scrupolosa esecuzione (Corte d’appello di Palermo 8/20). Il motivo? La disinformazione ha impedito al soggetto di scegliere consapevolmente e liberamente la soluzione ritenuta migliore (Cassazione 11749/18).

Nell’équipe si risponde anche per negligenza altrui

Frequente è il caso in cui di un paziente si occupi un’équipe. In tale ipotesi, ogni medico risponderà del danno non solo per la sua negligenza o imperizia ma anche per non essersi fatto carico dei rischi riconoscibili e connessi agli errori altrui. Sarà onere di ciascuno, allora, a prescindere dal grado rivestito, valutare l’attività svolta dai colleghi – pur specialisti in diversa disciplina – e controllarne la correttezza (Corte di appello di Reggio Calabria 363/20). Tra i doveri da assolvere prima di attivarsi, quello di prendere visione della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare – sgravandosi da colpe – un motivato dissenso per le scelte adottate (Cassazione 26307/19). La cooperazione multidisciplinare, specie in campo chirurgico, esigerà che l’accertamento del nesso con l’evento sia condotto con riguardo alla condotta e al ruolo di ognuno, soprattutto se i vari compiti siano nettamente distinti tra loro. Ciò, per evitare che il dovere di vigilanza diventi un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e invasione degli spazi di competenza degli altri operatori del gruppo (Cassazione 49774/19).

Fonte: Il Sole 24 Ore